La vicenda: timbrature virtuali e collegamenti VPN
Con la sentenza dell’11 luglio 2025, il Tribunale di Ragusa ha respinto il ricorso di un quadro A2, responsabile di struttura, licenziato il 22 febbraio 2024. Inizialmente vi erano dei ripetuti accessi tramite VPN e timbrature virtuali per lavorare da casa, senza autorizzazione da parte del datore di lavoro e senza alcun accordo con lo stesso. Le verifiche interne avevano censito decine di giornate “da remoto” nell’arco del 2023. La società è rimasta contumace, ma il giudice ha esaminato nel merito le difese del lavoratore e la proporzionalità della sanzione espulsiva.
Il quadro legale: accordo scritto e regole chiare
La disciplina ordinaria dello smart working, contenuta nella legge n. 81/2017, poggia su un impianto molto preciso: la prestazione fuori dai locali aziendali è possibile se e perché le parti la regolano con un accordo scritto. In tale accordo trovano posto i tasselli essenziali: modalità di esecuzione, strumenti utilizzati, tempi di riposo e disconnessione, ambiti di controllo e profili disciplinari. A questo impianto si affiancano le linee del Protocollo nazionale del 7 dicembre 2021, che orientano la contrattazione collettiva e aziendale su alternanza in/out, luoghi idonei, sicurezza e protezione dei dati. È un modello che presuppone decisioni condivise e tracciabili, non iniziative solitarie.
Le deroghe emergenziali non sostituiscono l’accordo
Tra gli argomenti difensivi, il dipendente ha richiamato la normativa speciale introdotta negli ultimi anni, che prevede corsie di favore per i genitori con figli piccoli (under 14). Il Tribunale non ne sminuisce la funzione sociale, ma rimette ogni tassello al suo posto: le misure agevolative non cancellano la necessità di un accordo. In altre parole, la presenza di requisiti “protetti” può fondare una pretesa qualificata a negoziare lo smart working, non un potere unilaterale di svolgerlo. Nemmeno comunicazioni estemporanee o scambi informali con il superiore (ad esempio via messaggistica) possono rimpiazzare l’accordo che la legge pretende. La differenza è sostanziale: un conto è una notizia di servizio, altro è un documento che definisce obiettivi, luoghi consentiti, controlli, responsabilità e adempimenti assicurativi.
La condotta esaminata: serialità e consapevolezza
Il giudice valorizza alcuni aspetti fattuali che spostano l’ago della bilancia. Primo: la ripetizione della prassi, che non appare come episodio isolato ma come modalità alternativa e parallela di esecuzione del rapporto. Secondo: gli indizi di consapevolezza. Un passaggio della ricostruzione (la richiesta di ferie immediatamente dopo un contatto con gli incaricati aziendali) mostra che il dipendente percepiva l’assenza di titolo per operare da remoto. Terzo: l’impatto organizzativo. In un ruolo di responsabilità, spostare unilateralmente il baricentro della prestazione fuori sede incide su coordinamento, presidi di controllo e ripartizione dei carichi. Alla luce degli artt. 52 e 53 del CCNL di settore — che impongono osservanza delle disposizioni aziendali, formalità di presenza e cooperazione — la risposta disciplinare è stata ritenuta proporzionata.
Codice disciplinare: quando l’affissione non è decisiva
Tra le difese figurava anche la mancata affissione del codice disciplinare. La decisione richiama un orientamento ben sedimentato: l’affissione è condizione necessaria quando si sanzionano regole interne non immediatamente conoscibili; non lo è se la condotta viola norme di legge o principi elementari di correttezza che chiunque comprende. Scegliere da sé luogo e modalità della prestazione, in un sistema che le subordina a un accordo formalizzato, rientra in questa seconda ipotesi. Perciò l’assenza di affissione non salva la condotta.
Cosa fare, davvero, per evitare contenziosi
Per le aziende: redigere modelli di intesa allineati alla L. 81/2017 e al Protocollo nazionale del 7 dicembre 2021; individuare con chiarezza quali attività sono davvero svolgibili a distanza, quante giornate sono consentite e quali fasce di disponibilità/disconnessione valgono; presidiare con rigore le incombenze formali (invii telematici al Ministero, coperture assicurative, compliance su privacy e sicurezza).
Per i lavoratori: prima di operare da casa, avviare una richiesta ufficiale e ottenere l’accordo; sostenere l’istanza con elementi oggettivi (situazioni familiari, condizioni personali, tempi di spostamento), evitando di confondere una priorità nell’accesso con un’autorizzazione automatica; non utilizzare timbrature virtuali o collegamenti VPN in assenza di titolo.
Perché la sentenza è importante
La pronuncia del Tribunale Siciliano fa chiarezza: rettifica il dibattito da equivoci sedimentati nel periodo emergenziale. Il lavoro agile non è una nuova forma di libertà individuale nel rapporto, ma una diversa organizzazione concordata della stessa prestazione subordinata. Senza un atto scritto che la istituisce e la regola, la prestazione resa da casa rimane non autorizzata. Se questa scelta personale diventa abitudine, soprattutto in posizioni apicali, l’azienda può legittimamente reagire con misure severe, fino al licenziamento, ove ne ricorrano i presupposti.
Conclusioni
La sentenza chiarisce che il lavoratore non può decidere autonomamente il luogo della prestazione.
Quando esiste un accordo, il lavoro agile diventa un alleato di produttività e conciliazione; praticarlo senza autorizzazione espone invece a rilievi disciplinari.